Rifuggire il pensiero della propria mortalità ci rende fragili difronte la vita.
- Annarita Corradini
- 14 dic 2023
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 20 dic 2023
Osservare la morte dà la prospettiva di un oltre.
“Avvicinarsi alla soglia ci rende prossimi al mistero, offrendoci occasione di riflessione e di ridefinizione del significato della nostra vita. Ci fa avvertire forte il senso del sacro, lo stesso che si prova di fronte alla venuta al mondo di un neonato"¹.
Oggi siamo più sguarniti che mai di fronte gli eventi di vita come la nascita e la morte. Prima si nasceva e si moriva in casa. La famiglia, il vicinato, la comunità sapevano che in quella casa c’era una donna che stava per partorire o una persona che stava morendo. Tutti avevano familiarità con questi eventi, si conoscevano le pratiche, si chiamavano le persone addette ai lavori, ognuno aveva un ruolo. Era risaputo che occorreva un tempo sia quantitativo che qualitativo, e che questo non era sotto il controllo degli uomini.
Invece, oggi, entrambi gli eventi sono sottratti al nostro sguardo. Si nasce e si muore in ospedale. Solo i familiari più prossimi sono vicini al morente e solo per alcune ore al giorno. Tutto ciò allontana sempre di più la morte dalla nostra vita, fino a dimenticarla, rimuoverla ed infine negarla. La morte è divenuta così un tabù per la nostra società. È un argomento ingombrante, meglio non parlarne, è di cattivo gusto. Eppure tutti sappiamo che esiste, ma nessuno la vede. Cade nel punto cieco della nostra retina.
Questo stato ci espone ad una progressiva vulnerabilità psico-emotiva. Impoveriti del nostro immaginario cediamo sotto il peso schiacciante di un’angoscia senza nome, che in ultima analisi è qualcosa di più spaventoso della morte, è una vera e propria angoscia di annientamento. In un’epoca materialista come la nostra, morte ed annientamento sono diventati sinonimi.
Questo tipo di angoscia si annida in forma inconsapevole, manifestando i suoi effetti attraverso le multiformi espressioni psicopatologiche che ogni psicologo oggi osserva più che mai nei suoi pazienti, pieni di ansia, attacchi di panico, fobie e depressione. Si arriva così al paradosso: incapaci di sostenere la paura di morire ci fa paura vivere, o addirittura, non ne troviamo più il senso.

Questo malessere non si confina all’interno del singolo individuo, secondo la psichiatra Kubler Ross c’è un rapporto diretto tra la morte rimossa e la violenza tra le nazioni:
“Gruppi di persone, dalle bande di strada fino alle intere nazioni, possono usare la loro identità di gruppo per esprimere la paura di essere distrutte attaccando e distruggendo altre persone. La guerra è forse solo un bisogno di affrontare la morte, di vincerla e dominarla, di venirne fuori vivo, uno strano modo di negare la propria mortalità?”².
A forza di procrastinare un confronto consapevole con la morte, ci siamo riempiti di una paura irrazionale che ha spinto le persone e le nazioni ad armarsi fino ai denti, per difendere il proprio stile di vita, col solo risultato di renderci irriconoscibili persino a noi stessi e perdere la nostra umanità.
Ecco che riflettere sulla morte, sulla sua certezza inevitabile, sull’impermanenza di ogni creatura vivente, diviene una pratica fondamentale per comprendere la vita. Conosciamo la morte? Che rappresentazione mentale abbiamo di essa? Sarebbe interessante indagare le immagini che abitano inconsapevolmente la nostra mente.
Il libro Finitezza e Immortalità. Un racconto sulla morte e l’amore invita a riconsiderare una posizione difensiva così netta e aprirci alla conoscenza di ciò che tanto ci terrorizza. Siamo sempre e solo spaventati da ciò che non conosciamo. Esplorare le proprie credenze e le proprie rappresentazioni è il passo necessario per accogliere una nuova conoscenza. Potremo, così, affrontare la morte e trasformare l’inconscio tormento dell’annientamento nella consapevole paura di morire. Per renderla almeno immaginabile, nominabile e, quindi, affrontabile.
Altro aspetto rilevante è la perdita del senso del sacro. L’attuale società sta perdendo la dimensione del sacro, custodita dalle forme rituali con le quali il singolo e la comunità contemplano il mistero, l’invisibile. Oggi, i riti hanno poco o niente da dirci, li abbiamo completamente svuotati di significato.
“Svuotare il rito significante dal significato che veicola e rappresenta, porta inevitabilmente ad un impoverimento delle nostre rappresentazioni mentali, quindi dei contenuti e valori della nostra vita. Se non siamo più capaci di nominare, quindi di rappresentare con un atto rituale l’invisibile, questo viene perso dalla nostra coscienza. Quanto era stato guadagnato e bonificato in logos ritorna nel vasto campo dell’indistinto”³.
La proposta è dunque aprirsi con fiducia allo spazio sconosciuto, fronteggiare con coraggio l’inganno paventato dalla morte ed aprirci all’inedito. È possibile stare con ciò che c’è, anche se non ci piace e non si capisce il senso. Si può rinunciare al controllo e arrendersi all’impotenza. Questa non è rassegnazione, ma accettazione senza giudizio di una realtà nuova, ancora sconosciuta.
Dove finisce il conosciuto si apre una strada nuova. La si può percorrere con umiltà ed onestà intellettuale, senza anticiparla con preconcetti o proiezioni. La realtà è sempre più grande e sorprendente di quello che la nostra piccola mente può da sola prevedere. Potremmo addirittura correre il rischio di sentirci colmi di pace e traboccanti di gioia.
“...è ormai giunta l’ora di andare, io a morire e voi a vivere. Ma chi di noi vada verso il meglio è oscuro a tutti, tranne che a Dio”. (Platone, Apologia di Socrate, 399-388 a.C.

Note
¹ Corradini A., Finitezza e Immortalità. Un racconto sulla morte e l’amore, pag.7, Ephemeria Ed., Macerata, 2023.
² Kübler-Ross E., La morte ed il morire, pag. 29, Cittadella Editrice, Assisi, 2020.
³ Corradini A., ivi pag. 8.