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INTERVISTA - Nada Cingolani dialoga con Annarita Corradini, autrice del libro FINITEZZA E IMMORTALITÀ

  • Immagine del redattore: Annarita Corradini
    Annarita Corradini
  • 17 mar
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 18 mar


01 MARZO 2025




  1. Nada: Annarita, so che l’idea di scrivere questo libro ha avuto una lunga gestazione, ci racconti le varie fasi e le motivazioni che ti hanno poi spinto a pubblicarlo?


    Annarita: Posso dire che questo libro era già nato nella mia mente mentre stavo accanto a mio padre durante la sua malattia, la sua morte, e quanto è successo dopo. Seguivo gli eventi con una sorta di narratore interno che commentava le situazioni che stavo vivendo. Il tutto si è completato poi con lo studio durato due anni di testi e studiosi circa la morte. Quello che ho vissuto è stato così fuori dall’ordinario che ho sentito la necessità di mettere nero su bianco quanto mi è accaduto. Posso anche dire che ho scritto questo libro per risolvere un paradosso: quello della mia mente che paventava la morte, mentre il mio cuore, a fatto compiuto, era invece pieno di gioia.


    Ho provato gioia e una grande leggerezza, probabilmente scaturita dall’ essermi liberata di un fardello pesante come l’angoscia che ognuno di noi prova in sottofondo ogni volta che si pensa alla morte. Non se ne parla, viviamo come se non esistesse, e se qualcuno nomina la morte si fanno gesti scaramantici, per poi vederla ostentata quotidianamente sugli schermi dei media, che siano notizie di cronaca o fiction, la morte paradossalmente è sempre in primo piano. Sostanzialmente l’ho scritto per condividere la gioia che ho provato, mi sentivo sola in questa gioia. La gioia non è mai piena se non è condivisa.


    Inoltre ho umilmente pensato che il racconto della mia esperienza potesse offrire un contributo al mondo. Sono una psicologa di professione e sento quanto il tabù e la rimozione che si opera sulla morte ci renda tutti più vulnerabili a livello psico-emotivo. Non era così fino a duecento anni fa in cui la morte ha sempre avuto un ruolo importante nel sistema delle credenze e dei valori della vita.



  1. N: In copertina c’è l’opera dell’artista Paola Tassetti. A pagina 193 riporti le parole dell’artista: “La natura avvolge l’uomo, lo rende Corpo vivo. Il corpo è un tempio temporaneo alle ossa, agli organi e allo spirito, che coesistono. Le anatomie vegetali (è questo il titolo dell’opera presente in copertina) nascono da questa esigenza evolutiva, cosmica e animistica e ritraggono l’anima”. Esiste un affinità tra quest’opera e il contenuto del libro? Nel titolo “Finitezza e immortalità, un racconto sulla morte e l’amore” c’è la presenza di due termini opposti, ci parli di questa scelta?


    A: Il linguaggio figurato di Paola Tassetti è speculare al mio, quello narrativo. In quell’opera che ho scelto c’è rappresentato tutto il libro: c’è la finitezza, la mortalità del nostro corpo fisico; c’è l’inflorescenza che nasce dalle ossa, la trasformazione, la metamorfosi, tanto descritta da Ovidio, ed anche dalla fisica classica di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. La morte non è il contrario della vita. La vita non muore mai, la vita è eterno movimento, non esiste la fine delle cose, ma la loro continua trasformazione. Più guardi l’opera più sorgono mille particolari, ad esempio lì al centro c’è un occhio, che rappresenta la coscienza, che non è solo quella individuale, ma anche quella universale, globale, del tutto...nell’arte sacra sovente Dio è raffigurato con un occhio, e non solo dalla nostra tradizione cristiana.



  1. N: Il valore del tuo lavoro sta nel coniugare una conoscenza psicologica, data dalla tua formazione, e la ricerca spirituale. Ho apprezzato la tua onestà intellettuale, non enunci verità, ma rendi testimone il lettore nel tuo percorso interiore, che si arricchisce degli aiuti forniti dalla tua psicoanalista e dal tuo amico teologo. Ce ne vuoi parlare?


    A: C’è stato il momento in cui brancolavo nel buio e non trovavo senso al dolore. Allora mi sono rivolta alle mie guide, la mia psicoanalista atea che negli ultimi anni aveva cambiato radicalmente il suo punto di vista e il mio amico teologo che aveva fatto un’esperienza personale al limite tra la vita e la morte durante il ricovero in terapia intensiva durata mesi dopo un’operazione al cuore.

    Pongo loro le domande più scomode ed entrambi non mi rispondono mai direttamente, ma fanno qualcosa di più importante e salvifico: mi sostengono affinché io possa guardare da sola con nuovi occhi la realtà che mi si stava svelando dinnanzi. Hanno avuto il ruolo delicato e non invasivo di sostenermi come stampelle nello smarrimento e nello sconforto dell’apparente non senso. Mi hanno incitato a non mollare, a mantenere la fiducia nonostante il non sapere, a sostenere l’indefinito, a non affogare tutti i miei sentimenti nel magma informe del dolore. È stato il dono più bello, quello di non ricevere risposte preconfezionate ma essere accompagnata ed incoraggiata a fidarmi di quello che la mia sensibilità percepiva.



  1. N: Tu non hai mai rinnegato le tue origini cristiane, hai continuato a fare la tua ricerca spirituale fino ad arrivare alla pratica della meditazione. Nel tuo libro ne parli come metodo, cosa ci puoi dire a riguardo?


    A: Sicuramente la pratica della meditazione che faccio da anni mi ha allenato moltissimo all’ascolto. Basti pensare che la paura, anche quella non consapevole, restringe il nostro campo percettivo, mentre la meditazione allarga uno spazio interiore affinché possiamo accogliere tutto, anche la paura stessa. E così facendo ci rendiamo abili ad accogliere anche ciò che ancora non conosciamo.


    Molti mi dicono che non è facile “stare nella situazione difficile” con quella postura interiore che ho tenuto e che descrivo nel libro. Riconosco che sono allenata ad ascoltare le sensazioni, gli stati d’animo, le mie emozioni, i miei pensieri. Li so distinguere tra loro, so dare spazio di accoglienza a ciascuno di essi. Non mi affretto a voler comprendere subito ciò che non capisco, in altre parole non mi difendo subito dal dolore o dalle emozioni sgradevoli, ma ci respiro dentro, attendo, non ho fretta. Mi do il tempo per vedere cosa succede dentro di me, come le sensazioni mutano. Liquidare il dolore, reagire per soffocarlo, oppure rimanerne paralizzati, offuscando tutto il resto, ci preclude occasioni di conoscenza.


    Amo troppo la conoscenza, desidero conoscere, questa spinta mi muove, mi porta ad accogliere ciò che c’è senza giudizio, mi mantiene in una posizione di osservazione neutrale senza troppa ansia, senza bisogno di definire subito la realtà. Di fatto cerco di mantenere una mente principiante, l’esercizio è duro, è necessario distinguere nella propria testa i pensieri degli altri e lasciare che di fronte all’esperienza autentica io mi possa meravigliare, esercitare il dubbio, non codificare subito l’esperienza, ma lasciarla aperta a più possibili significati.



  1. N: “Siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto” una bellissima frase di Giovanni Vannucci che mi fa pensare al messaggio contenuto in tutto il tuo racconto sulla morte e sull’amore. A pagina 29 tu scrivi: “È proprio nelle situazioni in cui si sperimenta il limite, in cui si è vicini alla morte e ci si pone la domanda sull’esistenza, che si liberano forze vitali inaspettate. Che si impara a discernere tra tante cose futili e scoprire che ciò che conta davvero è solo l’amore, quello ricevuto e quello donato”. Potresti aggiungere delle riflessioni a queste parole?


    A: Spesso si sentono storie di persone che proprio alla soglia della loro morte hanno dato coraggio alle persone che le assistevano. In loro si sono scatenate forze vitali inaspettate. È stata la coscienza della loro finitezza, della loro mortalità a rivelare i significati profondi della loro esistenza, tanto da chiedersi se quella luminosità l’avrebbero mai avuta se non si fossero trovati in quella circostanza.

    Ecco che dovremmo pensare al nostro tempo in maniera diversa. Noi pensiamo al tempo esclusivamente in maniera quantitativa, non pensiamo mai al tempo in maniera qualitativa. I greci avevano due termini per definire il tempo: crònos e kairòs, noi non sappiamo più cosa significhi quest’ultimo....e perdendone il significato abbiamo perso una dimensione dell’esistenza. Delle persone che si avvicinano alla soglia diciamo: “Ormai quella persona è spacciata, ha una malattia mortale, non c’è niente da fare, ha finito il suo tempo”. Quale tempo? Sta finendo crònos, ma non kairòs….anzi quest’ultimo gli si è spalancato! Non sapendo più cosa significa lo neghiamo. Eppure quel tempo che resta è preziosissimo, è foriero di significati dell’esistenza. Quel tempo si dilata, assume un sapore tutto diverso, rivela dimensioni di vita inaspettate, attiva la ricerca del significato e del senso della vita.

    Ed è proprio la morte che ci fa vivere la vita nel suo significato più profondo, è la morte che definisce la vita. È la morte che definisce il valore delle cose. Se il valore di quella cosa si azzera con la morte significa che non era effettivamente così importante, se invece il suo valore aumenta con la morte, allora sì, evidentemente è molto importante. E cos’è quella cosa che non finisce con la morte, ma anzi, aumenta sempre di più con essa?

    Il calcolo è facile: tutti i beni materiali non resistono alla morte, li dobbiamo per forza lasciare sulla terra, ma tutto il sentimento di cura, attenzione e amore che abbiamo avuto durante la vita, quello sì che dura, che resta, anzi, si capitalizza, tanto da renderlo incorruttibile ed eterno.


    Così quando guardo la campagna e il territorio di cui si è preso cura mio padre; quando guardo l’albero davanti alla chiesa che ha piantato per regalarci un po’ di frescura alla fine della celebrazione per fermarsi a conversare invece di sparire subito nelle nostre traiettorie calcolate e programmate al minuto; quando guardo a me stessa in cui ritrovo la sua somiglianza, non solo fisica, ma anche nel modo di fare e di pensare; ecco che mi riconnetto con il suo amore che continua a vivere in me ed intorno a me.



  1. N: Malgrado la morte di tuo padre hai continuato a sentire la sua presenza attraverso i sogni ma anche tramite dei segni-simboli che fungevano come messaggeri, superando la visione materialistica tipica della nostra società attuale. Questo libro è frutto anche della tua ricerca che non si è fermata all’indagine delle difese psicologiche, ma fai riferimento a nuovi paradigmi che ci aiutano a rileggere la realtà, come la fisica quantistica e gli stati di coscienza differenti a quelli ordinari, come ad esempio i sogni. Mi ha colpito particolarmente il sogno che hai fatto il giorno prima del funerale, in cui te, le tue sorelle e tua madre vi avvicinate in auto ad una zona interdetta al traffico sui Champs Élisès. Ce ne vuoi parlare?


    A: Avvicinarsi al confine tra la vita e la morte, al limes (come lo chiama la studiosa filosofa e psicologa Ines Testoni, docente di psicologia all’Università di Padova e direttrice del master sugli studi del fine vita) ci avvicina al sacro, un “luogo” misterioso, che non ci è dato di conoscere più di tanto ma che percepiamo forte e solenne, pieno di qualcosa che intuiamo importante. Questo sogno credo sia l’espressione della mia coscienza più profonda per essersi avvicinata a quel confine, infatti era una zona interdetta e c’era un corpo diplomatico che la sorvegliava, non potevamo varcare quella soglia. Da una parte stanno i vivi, dall’altra i morti. C’è un confine molto preciso. Da una parte c’è il profano, la mondanità, le nostre vite incarnate, dall’altra c’è il mistero, fuori dalle leggi della fisica classica, fuori dalla dimensione spazio-tempo. Tuttavia in prossimità di quel confine è chiaramente avvertibile il senso del sacro. Al cospetto del sacro ci si spoglia dei vestiti profani, dei pensieri mondani, si rimane attoniti, muti, vuoti, aperti ad accogliere non si sa ancora cosa, ma aperti a gustare un’atmosfera calda, avvolgente, solenne, autorevole ed intensamente amorevole. Così è stato quello che ho provato.


    Certo che se siamo fortemente materialisti questo avvicinarsi al confine ci spaventa e basta, anzi, ci angoscia. Perché si ha sempre paura di ciò che non si conosce. E la paura della morte ne è un esempio, ma il materialista non ha solo paura della morte, ne è fortemente angosciato, perché non si pone in ascolto del mistero, ma si ferma prima, anteponendo un pensiero nichilista, dove ogni cosa finisce nel nulla.


    Qui necessitiamo della psicologia che ci aiuta a comprendere i meccanismi mentali attraverso i quali ci difendiamo difronte all’angoscia di annientamento (la paura di essere inghiottiti dal nulla). Moltissime infatti sono le difese psicologiche, spesso inconsapevoli, di fronte la morte: es. la rimozione, la negazione, l’iperattività, il consumismo, la dipendenza e molte altre.


    Il mio libro non dice niente di nuovo, descrivendo la mia esperienza avallo concetti che la ricerca ha già messo in luce e che documento ampiamente in bibliografia. Oggi sappiamo che il nulla non esiste, né da un punto di vista filosofico (basti pensare al filosofo Severino) né da un punto di vista della fisica. Semmai esiste il vuoto, che non è il nulla. Così la psicologia, la filosofia, la fisica quantistica, oggi ci aprono ad un paradigma tutto nuovo, che ci aiutano a capire che in fondo siamo spaventati da qualcosa che non esiste. Occorre avere il coraggio di Perseo, che affronta Medusa e scopre che dalla sua testa mozzata si libera Pegaso, il magnifico cavallo alato sul quale ognuno di noi può salire e librarsi nel cielo infinito. Il mostro terrifico non esiste, esiste solo la paura che può essere vinta con il coraggio dell’eroe. Il mito, come non mai, ci aiuta nella comprensione di concetti che gli antichi sapientemente hanno già affrontato da millenni. Mai come in questo momento storico abbiamo bisogno dei loro insegnamenti!



  1. N: Molto bello il capitolo sul ritorno a casa della salma dall’ospedale e l’arrivo degli amici e parenti per l’ultimo saluto. Intitoli il capitolo “Una festa”, perché?


    A: Perché è veramente stata una festa! Non lo sarebbe stata se la sua salma fosse rimasta nella camera mortuaria dell’ospedale. Invece portandola a casa si è creata un’atmosfera molto familiare, di grande vicinanza affettiva. L’aia mattonata della casa in campagna si è riempita di gente che ha avuto occasione di ritrovarsi dopo tanti anni, raccontando aneddoti col sorriso, sorseggiando un bicchiere di vino. Abbiamo avuto tutto il tempo, tre giorni, per dare l’occasione a tutti di salutarlo. Mio padre amava stare insieme e tutte noi della famiglia ci siamo adoperate affinché tutto si svolgesse come lui desiderava.


    Questo ci fa riflettere come la nostra società si sia impoverita di rituali. I vivi hanno bisogno di ritualità per aiutare la mente a realizzare la dipartita di un caro. Nel libro dedico un’ampia riflessione sul valore della ritualità. Oggi non si aspettano più i tre giorni prima della sepoltura, in alcuni casi non si celebra neanche il funerale. Le persone non hanno il tempo per vivere il loro cordoglio insieme, privandosi dell’occasione di esprimere il dolore e vivere la vicinanza affettiva della comunità. È una grandissima perdita sociale e psicologica. Prima era una regola “portare il lutto” per un anno, era una protezione per il singolo che si trovava in una situazione di vulnerabilità, oggi invece, se ancora sei triste dopo qualche mese, ti fanno sentire inadeguato, come se qualcosa non funziona bene nella tua testa, lasciandoti ancora più solo nel tuo dolore.



  1. N: Nel tuo libro è molto presente il sentimento di gratitudine verso gli antenati. La morte porta inevitabilmente a pensare in maniera ciclica, ai nostri antenati, a tutti coloro che hanno vissuto prima di noi, a cui noi diamo seguito. Ce ne vuoi parlare?


    A: Questa connessione con i miei antenati si è rivelata subito dopo l’esperienza di accompagnamento alla morte di mio padre. L’amore provato e che provo tutt’ora mi ha permesso di rimanere in relazione con lui, lo percepisco chiaramente, lui di là ed io di qua, un filo rosso ci unisce sempre. Grazie a questa esperienza mi si è aperto un nuovo orizzonte. Prima potevo solo immaginarlo, ora invece lo sento...è una dimensione che oltrepassa quella che viviamo in maniera ordinaria. Là dimorano i nostri antenati, e loro sono i nostri santi protettori, sono sempre pronti ad aiutarci ogni volta che li chiamiamo, che li invochiamo, che li onoriamo. Loro sono felicissimi di essere ricordati e ci fanno il tifo, sono i nostri fans più appassionati, ci supportano ogni volta che dobbiamo affrontare le sfide nella nostra vita terrena. Io sento che mio padre è il mio asso nella manica.



  1. N: Vorrei concludere con un passaggio del tuo libro, nel capitolo 25, in cui descrivi un momento di irrequietezza che si risolve con una forte connessione con tuo padre, che ti spinge a fermarti, ad alzarti dalla scrivania, a lavarti la faccia in bagno e guardarti allo specchio, fino a scorgere lo sguardo di tuo padre nei tuoi occhi, che sembrò sussurrarti:


    Ama e non ti stancare di amare!!

    Ogni gesto di amore, anche piccolo, resterà per sempre, rendendoci immortali.

    L’amore è l’unica cosa che sopravvive alla caducità della vita.

    Quello che resta è l’amore.

    Chi ha amato ed ama non muore mai.

    Lo scopo del nostro passaggio sulla terra è amare, contro ogni sfida, amare. È il potere più grande che possiamo esercitare mentre attraversiamo la dimensione terrena. Se riconosci questa forza in te non avrai paura di niente, neanche dell’ultima trasformazione che è la morte!”.


    Grazie!


    A: Grazie a te!


    FINITEZZA E IMMORTALITÀ

 
 
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